Un problema globale, di proporzioni enormi, può trovare un sistema se non semplice, ben conosciuto per essere gestito: il Mercato.
La portata sovranazionale del problema del climate-change mal si sposa naturalmente con iniziative “command & control” come vincoli alle emissioni o carbon tax, per un semplice motivo: come si potrebbero coordinare e gestire queste policy a livello globale? Come superare le sovranità nazionali? Gli stessi problemi hanno interessato l’Europa quando ha dovuto scegliere gli strumenti per ottemperare ai propri target.
Oggi siamo ad un punto delicatissimo anche per un problema atavico che investe i cosiddetti MECCANISMI FLESSIBILI teorizzati nel Protocollo di Kyoto (tra un attimo li riassumeremo):
gli ambientalisti non accettano che si possa mercificare l’ambiente; gli industriali non accettano che si tassi l’aria.
I due gruppi di stakeholder che per primi entrano in partita sui temi ambientali continuano a non voler comprendere questo esperanto (i meccanismi flessibili) che finalmente potrebbe fargli parlare la stessa lingua e ottemperare a due obiettivi che non devono essere messi in contrapposizione: proteggere l’ambiente e generare crescita economica (altro che decrescita felice!)
1. I meccanismi flessibili (ETS e carbon Offset) - una sintesi
Cosa sono questi meccanismi flessibili definiti dal protocollo di Kyoto? Sono gli Emission Trading Scheme (schemi di scambio di permessi di emissione) e gli schemi di Carbon Offset (compensazione delle emissioni clima-alteranti)
Faccio un piccolo riassunto di cosa si tratta per mettere dei punti fermi nella trattazione.
Entrambi i sistemi (ETS e Carbon Offset) sono strumenti che si basano sulla compravendita di permessi/certificati tra soggetti che emettono gas effetto serra e soggetti che riducono/evitano emissioni clima-alteranti.
Il principio che regola entrambi è uno solo: far confluire risorse economiche laddove il costo marginale di abbattimento delle emissioni di CO2 è più basso.
Se si prende come postulato l’obiettivo di decarbonizzare la società (ridurre a livello globale le emissioni di oltre il 95% entro il 2050 per contenere l’innalzamento delle temperature sotto i 2° o preferibilmente entro 1,5°) le risorse economiche disponibili devono essere utilizzate nel modo più efficiente possibile. La sfida è titanica ed è anche a tempo.
Un Emission Trading Scheme ha bisogno che un ente regolatore definisca un quantitativo massimo di emissioni (un CAP), che si riduca di anno in anno fino al raggiungimento dell’obiettivo a fine periodo, e distribuisca ai soggetti industriali coinvolti un numero di permessi ad emettere pari al CAP. Dovrà poi vigilare affinchè ciascun industriale ogni anno misuri e certifichi le emissioni di CO2e generate e restituisca un numero di permessi ad emettere pari alle emissioni contabilizzate. In questo modo il risultato è garantito: non importa chi inizierà a ridurre le emissioni tra i partecipanti allo schema, poiché sicuramente le emissioni a fine periodo saranno meno di quelle iniziali essendosi ridotto il numero di permessi ad emettere disponibile. I primi a ridurre le emissioni saranno coloro i quali hanno a disposizione le alternative tecnologiche più economiche e in un vero ETS le risorse economiche rimangono all’interno del sistema, ovvero i costi dall’azienda A sono i ricavi dell’azienda B. Si noti bene che questo non significa che non deve esserci speculazione, intermediari ecc.. Come in ogni mercato (sia del gas, dell’acciaio, del grano) tutti gli intermediari ed i soggetti finanziari servono a creare liquidità ed efficienza, quindi le critiche contro la speculazione sui mercati della CO2 sono nuovamente critiche mosse da chi non ha ancora digerito che la CO2 sia diventata una risorsa (praticamente un input di produzione) e non solo un’esternalità.
Un sistema di Carbon Offset invece è un po’ diverso poiché il regolatore ha un ruolo più defilato e non fissa nessun cap: chiunque dimostri di ridurre, evitare, catturare le emissioni di CO2 (attraverso progetti di energia rinnovabile, efficienza energetica, bio sequestrazione ecc) rispettando determinati criteri (di addizionalità economica, permanenza ecc) può ottenere dei certificati di CO2 da vendere a coloro che invece non riescono a ridurre le emissioni a casa loro. L’offerta quindi non è controllata da nessuno, mentre lo è nei meccanismi ETS, dove i permessi sono definiti in misura decrescente, così come non sono definiti aprioristicamente i partecipanti. I sistemi di Carbon Offset, quindi, non garantiscono il raggiungimento di un obiettivo a termine, ma nel breve periodo permettono di far confluire risorse economiche a tutti coloro che possono contribuire al risultato comune. Sono inoltre un ottimo sistema per far transitare risorse economiche tra diverse giurisdizioni e spesso portano risorse economiche a quei Paesi più penalizzati poiché generalmente i Paesi più ricchi hanno contesti già meno carbon intensive rispetto alle economie emergenti.
2. L’esempio europeo - avanguardia onerosa
Per i primi 8 anni di ETS Europeo, i permessi di emissione erano distribuiti gratuitamente alle aziende partecipanti le quali poi se li scambiavano facendo rimanere le risorse economiche all’interno del perimetro dei soggetti coinvolti. Poi, dal 2013 le quote hanno iniziato ad essere assegnate non più gratuitamente, ma a titolo oneroso, attraverso aste gestite dagli Stati membri. In poche parole le aziende coinvolte hanno iniziato a dover pagare lo Stato per ottenere i permessi ad emettere, generando così del gettito, al pari di una carbon tax.
Vengono così a cadere alcuni elementi fondamentali di un sistema ETS:
non c’è più un implicito meccanismo che garantisce di trasferire le risorse economiche verso le tecnologie più efficienti, poiché non più il mercato ma le decisioni arbitrarie degli Stati governano i flussi economici;
i costi dell’azienda A non sono più i ricavi dell’azienda B, ovvero le risorse economiche escono dal perimetro delle aziende coinvolte e tutto il comparto industriale rischia di partecipare ad uno schema a somma negativa;
I tempi di riallocazione delle risorse prelevate inoltre sono potenzialmente molto lunghi.
Nei primi anni di ETS europeo ci sono stati comunque una serie di problemi d’implementazione che hanno dato il pretesto al legislatore per applicare dei correttivi, ma la soluzione a cui si è giunti è penalizzante per tutti: aziende e collettività, ma ci si è arrivati sia con il consenso dei gruppi politici più ambientalisti che con l’avvallo delle realtà industriali. Le prime consapevoli di riportare lo schema verso una sorta di carbon tax, le seconde inizialmente inconsapevoli poiché non percepivano ancora la portata dei costi che sarebbero derivasti dal meccanismo (tra il 2008 ed il 2015 il prezzo dei permessi è stato abbondantemente sotto i 10 € contro gli oltre 60 € di oggi poiché la crisi economica aveva tagliato le produzioni industriali e quindi il mercato era strutturalmente lungo) e poi perché disturbati dall’aggravio burocratico determinato dai soliti burocrati europei avevano iniziato a chiedere che tutto si semplificasse applicando una carbon tax (non disturbateci, presentateci il conto e buona notte).
Un'altra beffa è stata l’inclusione a partire dal 2016 dei permessi ad emettere all’interno della normativa MIFID2. In poche parole la CO2, che per le aziende in ETS va trattata alla stregua del gas e dell’energia elettrica (una commodity) è stata classificata come strumento finanziario, per cui solamente banche o soggetti in possesso di autorizzazione MIFID possono fare da controparte degli industriali. In altre parole, un acciaierie non può vendere o comprare le quote da un cementiere, lo scambio deve per forza passare da una banca. Eppure il gas e l’energia possono essere scambiati sia a pronti che a termine senza avere una licenza MIFID. Perché alla CO2 un trattamento diverso, per giunta anche per il contratto a pronti dove merce e denari vengono scambiati simultaneamente?
Il legislatore risponde che questa è la misura adottata per risolvere il problema delle numerose frodi di cui il mercato dei permessi ad emettere è stato oggetto nei primi anni, ma le frodi sono avvenute perché alcuni Stati applicavano l’IVA sui permessi prima che in tutta Europa si adottasse il principio di reverse charge sulle commodity energetiche (CO2 inclusa); quindi, un bene virtuale, che non ha bisogno di trasporto poiché viaggia a livello informatico, con asimmetrie di trattamento IVA in un’ area economica di libero scambio era il terreno perfetto per frodi fiscali di ogni genere.
Di nuovo, l’Europa, per risolvere un problema oggettivo, ne fa pretesto per togliere ancora elementi di mercato allo strumento, chiudendo gli scambi ad un club ristretto. E ancora una volta il grido degli industriali è contro la cosiddetta speculazione e si chiede che i partecipanti al mercato siano contingentati.
3. CO2, Efficienza Energetica e Rinnovabili: pericoloso OVERLAPPING
In Europa, rinnovabili, efficienza energetica ed emissioni di CO2, invece che essere le facce di un unico dado sono ancora gestiti come compartimenti stagni, con policy in overlapping e diverse autorità coinvolte. Rinnovabili ed efficienza gestite dai singoli stati, CO2 governata da Bruxelles.
Farò qualche esempio per dimostrare il livello di caos.
In Italia l’efficienza energetica è promossa attraverso il meccanismo dei cosiddetti certificati bianchi. Un meccanismo per cui le società di distribuzione di energia elettrica e gas hanno degli obblighi di efficientamento annuali. Questi obiettivi non possono tecnicamente essere perseguiti dalle società di distribuzione, che quindi possono ottemperare agli obblighi acquistando i certificati bianchi generati da qualsiasi azienda italiana a fronte di interventi certificati di efficienza energetica (meccanismo simile al carbon offset nei principi). La perversione è che le società di distribuzione pagano per acquisire i certificati bianchi, ma ricevono dall’Autorità un rimborso per le spese sostenute. Il rimborso che ottengono è finanziato dagli oneri che tutti gli italiani (e le aziende stesse) si ritrovano in bolletta. Quindi lo Stato italiano finanzia l’efficienza energetica attraverso una tassa applicata in bolletta che porta i costi dell’energia a salire (anche per le aziende che fanno efficienza energetica). Il carico non è sulle spalle delle società di distribuzione, ma viene così collettivizzato.
Tra gli interventi di efficienza energetica, uno dei più frequenti è stato ed è tutt’ora la realizzazione di sistemi di cogenerazione. Se però il cogeneratore è realizzato da un’azienda sottoposta ad ETS (una cartiera, una ceramica, una vetreria ecc) da una lato riceve i certificati bianchi dallo Stato italiano, ma dall’altro riceve meno permessi ad emettere CO2 dall’Europa poiché la cogenerazione, anche se finalizzata ad una produzione industriale a rischio di delocalizzazione, per il burocrate è equiparata all’attività di produzione e vendita di energia che invece non è a rischio di delocalizzazione. Quindi il nostro industriale, per il medesimo intervento, da un lato riceve soldi dall’altro ne deve versare. A seconda di come vanno i mercati dei certificati bianchi e della CO2 saprà se ha avuto un ritorno positivo o negativo sull’investimento fatto per ridurre i consumi di energia.
I primi anni di ETS 2005 – 2014 hanno coinciso con i famosi conti energia con cui si finanziavano le rinnovabili con tariffe macroscopiche. Le rinnovabili erano il miglior investimento che si potesse fare. Le utility potevano costruire impianti, ricevere l’incentivo (già grasso) da parte dello Stato, e contestualmente ridurre il fabbisogno di permessi ad emettere. Anche il conto energia è finanziato attraverso gli oneri in bolletta da cittadini ed aziende.
Ma quali erano i costi in termini di € per tonnellata di CO2 di queste politiche? In una bella relazione del Ministero del Tesoro del 2013 si stimava che il costo per CO2 ton evitata del conto energia fosse maggiore di € 400,00; il sistema dei certificati bianchi è gravato sulle spalle degli italiani per circa € 180,00/CO2 ton, e in quegli anni la CO2 nel sistema ETS stentava a superare € 7,00/CO2 ton. In quegli anni il maggior numero di risorse venne messo a disposizione dello strumento meno cost-effective di tutti (il conto energia).
4. Conclusioni
La coscienza collettiva del problema del climate-change sta aumentando, le risorse economiche sono pronte ad essere indirizzate sulle soluzioni, ma i costi dell’impresa saranno enormi. Occorre davvero promuovere prioritariamente le iniziative con il minor costo di abbattimento marginale dei gas clima-alteranti, altrimenti il rischio è che le maggiori inefficienze debbano essere collettivizzate rendendo insopportabile il peso della transizione ecologica per i cittadini, alimentando le resistenze. Gli strumenti di mercato meritano un posto di primo piano ed occorre riportarli alla loro natura.
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