Perché questa è la prima COP, dopo Parigi, dove si è fatto un vero passo avanti anche se molti gridano al fallimento.
Sabato notte si è chiusa la COP29 di Baku dove ho avuto la possibilità di partecipare come “party overflow”, assistendo quindi anche alle negoziazioni formali.
La sintesi di questa COP29 è che con l’approvazione dell’art.6 ovvero la legittimazione dei mercati della CO2, si è ripristinato il principio “a ton-is-a-ton” del protocollo di Kyoto (una tonnellata è una tonnellata, ovvero non importa chi e dove si riduce o rimuove una tonnellata di CO2, l’importante è farlo presto ed in modo efficiente) e con esso si apre la strada al superamento del più grande ostacolo ai negoziati: la distinzione tra Paesi che devono pagare e paesi che vengono finanziati.
A tutti quelli che mi chiedono com’è andata rispondo con due commenti che incredibilmente non sono quasi mai riportati dai giornalisti ufficiali.
La distinzione tra Pasi che pagano e Paesi che ricevono i soldi per tabulas è e rimane il problema.
Uno dei cardini dell’Accordo di Parigi è la distinzione tra Paesi sviluppati, chiamati a finanziare la transizione, e Paesi in via di sviluppo, destinatari di tali fondi. Tuttavia, questa classificazione è sempre più problematica, considerando che tra i beneficiari ci sono Paesi considerati in via di sviluppo come Cina, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
In Blue Zone (la zona ad accesso ristretto della COP), girando tra i padiglioni dei diversi Paesi sembra di essere ad un evento dei BRICS: i padiglioni di Cina, India, Brasile, Paesi del Golfo sono frequentati per tutte le due settimane di COP da alte cariche di Stato e con un calendario ricchissimo di eventi paralleli. Il padiglione USA sembrava un banchetto della limonata. La Cina aveva anche un calendario fittissimo di eventi ospitati nei padiglioni dei principali Stati africani, chiara conseguenza della colonizzazione in atto, spesso vestita anche da contributi per la decarbonizzazione attraverso il finanziamento di infrastrutture strategiche in cambio di concessioni esclusive sulle riserve minerarie che assicurano la leadership del dragone nella transizione.
Se si guarda ai negoziati da questa angolazione si può comprendere che la dichiarazione di una nuova uscita dall’accordo di Parigi da parte dell’imminente amministrazione Trump non è poi così assurda. Pensare che gli USA paghino il conto della transizione di Pechino quando la Cina continua ad investire le proprie risorse su iniziative come la Belt and road initiative (la nuova via della Seta) con cui rafforza il proprio monopolio sulle risorse per consentire il processo di decarbonizzazione del resto del mondo, non è sostenibile.
I Paesi definiti in via di sviluppo e i gruppi verdi-progressisti occidentali gridano al fallimento per l’accordo siglato ieri notte relativamente all’impegno dei Paesi sviluppati di finanziare con 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 i Paesi in via di sviluppo per progetti di mitigazione, adattamento e resilienza. L’obiettivo era arrivare a otre 1.000 miliardi all’anno. I Paesi destinatari (vedi Cina) potranno anche contribuire volontariamente allo stanziamento dei 300 miliardi di dollari anno ma senza cambiare il loro status di destinatari. USA, Europa, Giappone invece dovranno sempre e solo aprire il portafoglio, non potranno mai ricevere.
I mercati della CO2 ritornano al centro dei negoziati per il clima e con essi la speranza di superare lo stallo delle COP.
Il primo giorno abbiamo esultato quando il Presidente della COP29, Mukhtar Babayev, Ministro dell'Ecologia e delle Risorse Naturali dell'Azerbaigian, nel discorso di apertura ha annunciato come obiettivo fondamentale di questa COP29 l’approvazione dell’Art.6 dell’accordo di Parigi, dichiarando che “allineando compratori e venditori in modo efficiente, i mercati della CO2 possono ridurre il costo del perseguimento degli obiettivi climatici di oltre 250 miliardi di dollari all’anno.. in un mondo dove ogni dollaro ha un peso questo provvedimento è ESSENZIALE”
I punti essenziali dell’Art.6 sono racchiusi nell’art. 6.2 e 6.4. Con l’art. 6.2 si da la possibilità ai Paesi i scambiarsi “risultati di mitigazione a livello internazionale” (ITMOs). Questi crediti di CO2 rappresentano riduzioni di emissioni che possono essere scambaite tra Paesi per soddisfare i rispettivi obiettivi nazionali (NDC). Sono poi stati satbilite le prime regole per trasparenza, registrazione degli scambi ecc per garantire che non ci siano doppie contabilizzazione ed altri possibili manomissioni del meccanismo
Con l’art. 6.4 si definisce un meccanismo di crediti di CO2 gestito a livello internazionale dalle nazioni Unite: il meccanismo dei crediti dell’accordo di Parigi (PACM). Questo meccanismo permetterà ai Paesi e agli attori privati (aziende, istituzioni ecc) di generare e scambiarsi crediti di CO2 certificati da progetti che riducono o rimuovono le emissioni di gas clima-alteranti in modo addizionale, permanente e verificato. E’ stato un po’ come reinventare l’acqua calda perché in realtà le Nazioni Unite, proprio subito dopo Kyoto avevano creato il CDM, il Clean Development Mechanism con lo stesso obiettivo. Ora le modalità saranno diverse ma non la sostanza. Ciò che cambia è che il mondo, ora che la partita si fa dura è tornata a sostenere l’unico strumento senza il quale sicuramente l’obiettivo di decarbonizzazione non si potrà raggiungere: il mercato. Questo cambierà anche tutte le possibilità di utilizzo degli offset da parte delle aziende che finalmente potranno usare con serenità questi struemnti per il perseguimento dei propri target. Protocolli ad adesione volontaria come SBTi e legislazioni dei singoli Stati non potranno che adeguarsi.
I verdi europei e le fasce più progressiste gridano al fallimento.
Già alla vigilia della COP29, I Verdi europei, così come le correnti più progressiste, hanno espresso forte opposizione all’utilizzo dei crediti di carbonio internazionali. Isabella Lovin, europarlamentare svedese, ha sottolineato l’importanza di evitare il doppio conteggio e di garantire trasparenza assoluta nei progetti di riduzione. Michael Bloss, europarlamentare tedesco, ha definito l’approccio dei mercati internazionali una forma di “greenwashing”, sostenendo che le aziende europee dovrebbero concentrarsi esclusivamente su riduzioni domestiche.
Questa posizione ignora però la realtà di un’economia globale interconnessa, dove ogni tonnellata di CO2 risparmiata ha lo stesso impatto climatico, indipendentemente da dove venga generata. Privare il mercato di strumenti economici efficienti rischia di rendere la transizione più lenta e costosa.
La realtà dei numeri
Nel mondo oggi vengono generati solamente 372 milioni di crediti di CO2 conformi agli standard riconosciuti dallo IETA-ICROA (International Emission Trading Association - International Carbon Reduction and Offset Alliance. Anche se alcuni di quelli oggi generati non fossero immacolati, le emissioni globali sono 55 miliardi di tonnellate di CO2, di queste 41 miliardi non sono coperte da sistemi di carbon pricing obbligatori (Emission trading o carbon tax).. 372 milioni Vs 41 miliardi. Una volta acclarato che i sistemi di compensazione sono alternativi alle riduzioni dirette (anche se così netta non si sentirà mai dire per non turbare le coscienze più radicali) il mercato renderà lo strumento della compensazione estremamente oneroso. Oggi il prezzo medio dei crediti di CO2 è di circa 7 USD (fonte World Bankl). La maggior parte degli analisti prevedono prezzi sopra i 150-200 USD entro il 2030. Così s’innescherà una corsa ai progetti di decarbonizzazione pubblici e privati dove verrà sempre premiata la soluzione al minor costo marginale di abbattimento della CO2.
Conclusioni
La COP29 di Baku segna una svolta cruciale per i negoziati sul clima. L’approvazione dell’articolo 6 non è solo un passo avanti tecnico, ma anche politico, riportando al centro dei dibattiti uno strumento economico indispensabile per la decarbonizzazione.
Nonostante le critiche, è fondamentale riconoscere che un sistema di mercato ben regolato offre l’unica via percorribile per un processo di transizione equo, rapido ed economicamente sostenibile. Ora, la sfida sarà tradurre questi accordi in azioni concrete.
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